Nell’oscuro labirinto della storia criminale dell’Italia gli anniversari passano stanchi, corrosi dalla retorica e dall’oblio. Le commemorazioni delle date delle stragi e dei delitti di mafia si alternano ripetitive, senza mai un bagliore di verità e giustizia, spesso involontariamente fini a sé stesse e con l’agghiacciante prospettiva di trasformarsi nei funerali della Costituzione e dello Stato di diritto.

“Le verità parziali le abbiamo avute, ma c’è sempre un pezzo che manca, che rimane fuori e non si può provare in tribunale” ha osservato il sociologo Nando Dalla Chiesa il figlio del Generale Prefetto dei 100 giorni nella Palermo allora irredimibile.

“Forse inconsciamente non si vuole cercare la verità perché si ha paura di trovarla”, accusa l’avvocato Michele Costa, figlio del Procuratore capo assassinato da un sicario di cosa nostra poco dopo l’emissione di una inedita raffica di ordini di cattura nei confronti di boss e fiancheggiatori delle cosche.
Anche se essenziali all’elaborazione della memoria collettiva e alla sua trasfigurazione in esempi storici, le commemorazioni da sole non bastano, soprattutto se invece di elaborare l’angoscia si trasformano in retorica dell’apparenza.
“La retorica dovrebbe essere un ponte, una strada, ma in genere é una muraglia, un ostacolo”, scriveva Jorge Louis Borges. Un ostacolo alla verità.
