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Rubrica di critica recensioni anticipazioni
by Augusto Cavadi
Esiste un’utilità dell’inutile? La formula, quasi ossimorica, è volutamente paradossale. Se vogliamo tradurla su un registro più morbido, più ragionevole, possiamo riformularla così: esiste una necessità dell’inutile ?

La nostra vita è piena di oggetti, attività, relazioni…utili. Essi sono indispensabili come lo sono mangiare o vestirsi, frequentare un corso di formazione professionale o lavorare. Sulla necessità dell’utile nessuno, suppongo, può seriamente nutrire dubbi. La questione è un’altra: necessario alla nostra vita è soltanto l’utile?
La domanda sorge quando – dopo aver soddisfatto tutte, o quasi, le esigenze primarie – avvertiamo un senso più o meno vago di vuoto. Schopenhauer è uno dei pensatori che più ha analizzato il pendolo fra la sofferenza (dovuta a ciò che ci manca) e la noia (dovuta a ciò che abbiamo ottenuto). Se è davvero questo lo schema della nostra esistenza, si capisce perché il mondo capitalistico – e il resto del mondo che più o meno confusamente lo invidia e prova a imitarlo – sperimenta un destino tragico: moltiplica la fatica per raggiungere più ‘utilità’ e, man mano che le raggiunge, amplifica insoddisfazione e delusione. Si concentra nella crescita della quantità e constata che la qualità resta la medesima, quando addirittura non degrada.
Un’ipotesi che potrebbe liberarci dalla trappola sarebbe – rispondendo alla domanda iniziale – che esistono oggetti, attività, relazioni…tanto inutili quanto necessari.
Un gioco di parole? Forse no, almeno se proviamo a distinguere due accezioni semantiche principali dell’aggettivo “utile”. Nel significato abituale, volgare, ‘inutile’ è qualcosa che non si giustifica da nessun punto di vista, come quando diciamo che è del tutto inutile piangere sul latte versato o prolungare per accanimento terapeutico l’agonia di una persona cara. In questo senso ciò che è inutile è insensato e certamente non-necessario.
Ma in un secondo significato, più etimologico, ‘in-utile’ significa qualcosa che non è ‘funzionale ad’ altro, che non è soltanto o prevalentemente ‘mezzo per’, bensì che possiede senso in sé stesso. Se sono un pescatore di mestiere vado a mare per pescare; se sono un vacanziere vado a mare per farmi riscaldare le ossa dal sole, per nuotare, per riempirmi gli occhi di luce, per respirare aria iodizzata. Mi può anche capitare di dedicare un’oretta a pescare (se proprio mi piace e non ho compassione per il modo in cui i pesci catturati agonizzano): ma non dirò che la mia giornata al mare è stata sprecata se non pesco nulla. La contemplazione della bellezza, la visita a un amico malato, il ballo, l’ascolto della musica…sono attività che si praticano per il piacere di praticarle. Sono letteralmente, e stupendamente, in-utili: non subordinate ad altro. O, per lo meno, quando lo sono, il loro gusto diminuisce. Un pittore che guadagni grazie ai propri quadri può essere e sentirsi realizzato, ma – se dipinge essenzialmente per guadagnare qualcosa – dentro di lui, e non di rado nella stessa opera, qualcosa si guasta. Ciò che è inutile in questo senso è necessario almeno quanto lo è l’utile.
La riprova? Quando la nostra esistenza è abbastanza soddisfatta dalla dimensione dell’utilità e tuttavia ci avvertiamo incompleti, sperimentiamo che un’iniezione di gratificazione ci proviene sconfinando nella dimensione dell’in-utilità. Del gratuito. Del senza-uno-scopo-determinato. Del privo di prezzo. La nostra vita rinasce e, come la rosa di Angelo Silesio, “fiorisce perché fiorisce; non pensa a sé, non si chiede se la si veda oppure no”.
La confusione nelle nostre teste e nelle nostre vite è, in proposito, disorientante. Un solo esempio: i greci usavano il termine schole per indicare il libero godimento della conoscenza. I latini hanno tradotto schole con otium: per loro la vita quotidiana era funzionale ai momenti di otium.
Nell’italiano contemporaneo tutto è capovolto: l’ozio, lungi dal suggellare i momenti apicali dell’esistenza, è diventato il padre dei vizi. Non si sopporta la negazione dell’ozio, il neg-otium, in vista del premio (l’ozio); al contrario, si legittima l’ozio solo in quanto ci rinfranchi in vista dello scopo principale: il negozio quotidiano. La schole – la scuola – non è premio a sé stessa, ma si giustifica solo in quanto strumento per raggiungere altri obiettivi: è tristemente “utile per”, “funzionale a…”. Gli anni scolastici – in teoria – sarebbero il privilegio di pochi da far diventare diritto di tutti i giovani, ma genitori e insegnanti fanno di tutto per presentarceli come la sgradevole pillola da inghiottire per poter finalmente lavorare e guadagnare.
Per non apparire irrealistici sognatori chiudiamo assumendo in prestito da Agostino Tagaste la differena fra uti (usare) e frui (fruire). Una vita completa, equilibratamente completa, è tesa a utilizzare le cose utili e a fruire delle cose inutili: una lezione di guida si utilizza, di una carezza o di una poesia si fruisce. Sino a quando la scuola, concepita come avviamento alla socialità ‘media’, sarà (principalmente o esclusivamente) l’occasione di apprendere nozioni utili, non di fruire di esperienze inutili, ciondoleremo barcollando con la testa in giù e i piedi in aria.
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Giornalista pubblicista, Filosofo. Fondatore della Scuola di formazione etico-politica Giovanni Falcone di Palermo