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Interrogativi filosofici: esiste un’utilità dell’inutile?

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Rubrica di critica recensioni anticipazioni

I cardini del pensiero Socrate Buddha Confucio Gesù

by  Augusto Cavadi

Esiste un’utilità dell’inutile? La formula, quasi ossimorica, è volutamente paradossale. Se vogliamo tradurla su un registro più morbido, più ragionevole, possiamo riformularla così: esiste una necessità dell’inutile ?

Interrogativi filosofici esiste un’utilità dell’inutile
(Foto Giuseppe Colarusso)

La nostra vita è piena di oggetti, attività, relazioni…utili. Essi sono indispensabili come lo sono mangiare o vestirsi, frequentare un corso di formazione professionale o lavorare. Sulla necessità dell’utile nessuno, suppongo, può seriamente nutrire dubbi. La questione è un’altra: necessario alla nostra vita è soltanto l’utile?

La domanda sorge quando – dopo aver soddisfatto tutte, o quasi, le esigenze primarie – avvertiamo un senso più o meno vago di vuoto. Schopenhauer è uno dei pensatori che più ha analizzato il pendolo fra la sofferenza (dovuta a ciò che ci manca) e la noia (dovuta a ciò che abbiamo ottenuto). Se è davvero questo lo schema della nostra esistenza, si capisce perché il mondo capitalistico – e il resto del mondo che più o meno confusamente lo invidia e prova a imitarlo – sperimenta un destino tragico: moltiplica la fatica per raggiungere più ‘utilità’ e, man mano che le raggiunge, amplifica insoddisfazione e delusione. Si concentra nella crescita della quantità e constata che la qualità resta la medesima, quando addirittura non degrada.

Un’ipotesi che potrebbe liberarci dalla trappola sarebbe – rispondendo alla domanda iniziale – che esistono oggetti, attività, relazioni…tanto inutili quanto necessari.

Un gioco di parole? Forse no, almeno se proviamo a distinguere due accezioni semantiche principali dell’aggettivo “utile”. Nel significato abituale, volgare, ‘inutile’ è qualcosa che non si giustifica da nessun punto di vista, come quando diciamo che è del tutto inutile piangere sul latte versato o prolungare per accanimento terapeutico l’agonia di una persona cara. In questo senso ciò che è inutile è insensato e certamente non-necessario.

Ma in un secondo significato, più etimologico, ‘in-utile’ significa qualcosa che non è ‘funzionale ad’ altro, che non è soltanto o prevalentemente ‘mezzo per’, bensì che possiede senso in sé stesso. Se sono un pescatore di mestiere vado a mare per pescare; se sono un vacanziere vado a mare per farmi riscaldare le ossa dal sole, per nuotare, per riempirmi gli occhi di luce, per respirare aria iodizzata. Mi può anche capitare di dedicare un’oretta a pescare (se proprio mi piace e non ho compassione per il modo in cui i pesci catturati agonizzano): ma non dirò che la mia giornata al mare è stata sprecata se non pesco nulla. La contemplazione della bellezza, la visita a un amico malato, il ballo, l’ascolto della musica…sono attività che si praticano per il piacere di praticarle. Sono letteralmente, e stupendamente, in-utili: non subordinate ad altro. O, per lo meno, quando lo sono, il loro gusto diminuisce. Un pittore che guadagni grazie ai propri quadri può essere e sentirsi realizzato, ma  – se dipinge essenzialmente per guadagnare qualcosa –  dentro di lui, e non di rado nella stessa opera, qualcosa si guasta. Ciò che è inutile in questo senso è necessario almeno quanto lo è l’utile.

La riprova? Quando la nostra esistenza è abbastanza soddisfatta dalla dimensione dell’utilità e tuttavia ci avvertiamo incompleti, sperimentiamo che un’iniezione di gratificazione ci proviene sconfinando nella dimensione dell’in-utilità. Del gratuito. Del senza-uno-scopo-determinato. Del privo di prezzo. La nostra vita rinasce e, come la rosa di Angelo Silesio, “fiorisce perché fiorisce; non pensa a sé, non si chiede se la si veda oppure no”.

La confusione nelle nostre teste e nelle nostre vite  è, in proposito, disorientante. Un solo esempio: i greci usavano il termine schole  per indicare il libero godimento della conoscenza. I latini hanno tradotto schole con otium: per loro la vita quotidiana era funzionale ai momenti di otium.

Nell’italiano contemporaneo  tutto è capovolto: l’ozio, lungi dal suggellare i momenti apicali dell’esistenza, è diventato il padre dei vizi. Non si sopporta la negazione dell’ozio, il neg-otium, in vista del premio (l’ozio); al contrario, si legittima l’ozio solo in quanto ci rinfranchi in vista dello scopo principale: il negozio quotidiano. La schole – la scuola – non è premio a sé stessa, ma si giustifica solo in quanto strumento per raggiungere altri obiettivi: è tristemente “utile per”, “funzionale a…”.    Gli anni scolastici – in teoria – sarebbero il privilegio di pochi da far diventare diritto di tutti i giovani, ma genitori e insegnanti fanno di tutto per presentarceli come la sgradevole pillola da inghiottire per poter finalmente lavorare e guadagnare.

Per non apparire irrealistici sognatori chiudiamo assumendo in prestito da Agostino Tagaste la differena fra uti (usare) e frui (fruire). Una vita completa, equilibratamente completa, è tesa a utilizzare le cose utili e a fruire delle cose inutili: una lezione di guida si utilizza, di una carezza o di una poesia si fruisce. Sino a quando la scuola, concepita come avviamento alla socialità ‘media’, sarà (principalmente o esclusivamente) l’occasione di apprendere nozioni utili, non di fruire di esperienze inutili, ciondoleremo barcollando con la testa in giù e i piedi in aria.Interrogativi filosofici esiste un’utilità dell’inutile

 

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Gianfranco D'Anna
Gianfranco D'Anna
Fondatore e Direttore di zerozeronews.it Editorialista di Italpress. Già Condirettore dei Giornali Radio Rai, Capo Redattore Esteri e inviato di guerra al Tg2, inviato antimafia per Tg1 e Rai Palermo al maxiprocesso a cosa nostra. Ha fatto parte delle redazioni di “Viaggio attorno all’uomo” di Sergio Zavoli ed “Il Fatto” di Enzo Biagi. Vincitore nel 2007 del Premio Saint Vincent di giornalismo per il programma “Pianeta Dimenticato” di Radio1.
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