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Rubrica di critica recensioni anticipazioni
by Augusto Cavadi
Filosofia e dintorni. Secondo Heidegger, il pensatore autentico pensa solo una ‘cosa’ (e ci torna e ci ritorna da punti di vista differenti).
Se ciò è vero, Orlando Franceschelli – con la sua ultima pubblicazione, Nel tempo dei mali comuni. Per una pedagogia della sofferenza (Donzelli, Roma 2021, pp. 155, euro 18,00) – si conferma un pensatore autentico. Infatti, sollecitato da quel “male comune” che è stata, anzi che è, la “pandemia da Covid-19” (p. 41), riprende, in continuità con gli scritti degli ultimi decenni, la tematica a lui più cara: il senso del vivere umano come eco-appartenenza e solidarietà attiva con tutti i viventi. E lo fa con l’equilibrio metodologico del filosofo che, da una parte, ascolta le voci più affidabili delle scienze (naturali e umane) e, dall’altra, non rinunzia al compito di riflettere criticamente sulle tesi degli scienziati e, ancor più, sulle conseguenti applicazioni tecniche. Infatti, a suo avviso, “non si vive per filosofare”, ma “si pratica anche l’indagine filosofica per imparare a vivere bene, ossia per contribuire come filosofe/i e cittadine/i a quello che non a torto Montaigne indicava come il più «grande e glorioso capolavoro» che possono compiere gli esseri umani: educarsi a «vivere come si deve»” (p. 6).
L’equilibrio della prospettiva dell’autore non è sfuggito a Telmo Pievani che, nella Prefazione, ha notato che, “mentre filosofi nostrani perdono senno e reputazione vaneggiando di complotti e dittature sanitare, la naturalistica pedagogia della sofferenza di Franceschelli ci richiama alle nostre responsabilità di costruttori di mondi, smonta gli alibi di chi non vede mai alternative, invoca la conoscenza di sé stessi e la volontà di migliorarsi” (p. 10).
“Pedagogia della sofferenza” è una formula che, sin dal sottotitolo, ricorre molto spesso nelle pagine del libro e che sintetizza i tre aspetti dell’atteggiamento suggerito da Franceschelli nel misurarsi con l’oceano di dolore che – con o senza ventate epidemiche – circonda e soffoca le nostre esistenze: “sopportare la sofferenza per quanto si deve, ridurla per quanto è possibile, conoscere-apprendere quanto di più prezioso essa può insegnarci” (p. 111).
A prima vista, tre indicazioni che possono sembrare scontate; tuttavia per ciascuna di esse l’autore espone – attingendo alla storia della cultura occidentale dai Greci ai nostri contemporanei – obiezioni, critiche, asserzioni alternative. Talora, a somiglianza della sociologia secondo Wright Mills, anche la filosofia è costretta a farsi “penosa elaborazione dell’ovvio”.
Come dimostra, proprio in questi mesi, il pullulare di filosofi (prestigiosi e meno prestigiosi) che, individuando questo o quell’aspetto oggettivamente discutibile delle strategie politico-sanitarie, vi fanno leva per stupefacenti esercizi dialettici tendenti a rafforzare le loro almeno altrettanto discutibili teorie generali sul mondo: da proposte neo-stoiche (che invitano ad accettare i mali come “prove che l’uomo virtuoso deve sopportare con fermezza”, p. 102) a riedizioni del superomismo nietzschiano (che vedono in ogni disposizione governativa, anche e soprattutto se mirata a difendere i “deboli”, tentativi di ridurre a gregge obbediente anche gli spiriti eletti, che volano ben al di sopra del “bene e del male”).
Il registro espressivo di questo saggio è sommesso, dialogico, aperto al dubbio, insufflato da “critico pudore” (p. 120) : sarebbe auspicabile che altri lettori (meno consonanti di me con le tesi espresse) ne esaminassero criticamente i passaggi e proponessero le proprie contro-argomentazioni. Auspicabile, ma improbabile: nonostante gli auspici all’inizio della pandemia (Franceschelli preferisce chiamarla “sindemia” per richiamare l’attenzione “sull’insieme dei problemi – sanitari, ambientali, psicologici, sociali, economici – e sulla relazione tra le varie malattie che hanno favorito e reso ancora più devastanti gli effetti della diffusione del coronavirus nella popolazione”, p. 66), il Covid-19 non ci ha reso migliori. Siamo, infatti, non più – ma meno – disposti ad ascoltare le ragioni dell’altro e ancor meno disposti a condividere con gli altri abitanti del pianeta le nostre conoscenze scientifiche e le nostre risorse mediche. Forse, come sempre, la sofferenza è buona pedagoga per chi è già generoso di suo, pessima per chi è stato già da sempre egoista.