La profezia americana del diritto alla felicità scivola fra le lacrime amare del peggior anniversario immaginabile dell’11 settembre.
Una data che prima della catastrofe afghana e della tragedia infinita di Kabul chiudeva l’elenco delle più gravi pugnalate a tradimento che gli Stati Uniti avevano subito, Pearl Arbur e Saigon.
A 20 anni dall’attacco sincronizzato del commando dei 19 terroristi islamici che dirottarono quattro aerei di linea per farli schiantare sul Pentagono, le Twin Towers di New York e sulla Casa Bianca, risparmiata dalla ribellione dei passeggeri che fecero precipitare altrove il jet, Washington e l’occidente constatano che i fondamentalisti sono tornati da dove erano partiti nel 2001: l’Afghanistan.
Due tragedie concatenate, che prima della conclusione dell’ “abbiamo fede in Dio e la bandiera lucente di stelle sventolerà in eterno sul paese degli uomini liberi” sembrano riecheggiare nelle parole dell’inno americano che risuonerà come mai prima con profonda tristezza nelle cerimonie commemorative nel ricordo delle migliaia di vittime degli attentati dell’11 settembre e dei venti anni di vana presenza Usa e della Nato a Kabul.

Una dolorosa consapevolezza della terribile lezione afghana, che come traspare dagli interventi del Presidente Biden e dalla controffensiva invisibile contro il terrorismo avviata dal Pentagono con satelliti, droni, missili e blitz di forze speciali, ha già riattivato la ricorrente capacità americana di ricominciare a combattere. Questa volta non più soltanto per difendersi, ma soprattutto per scongiurare altri 11 settembre.
Le cronache talebane che rimbalzano dalle città afghane evidenziano il protrarsi della resistenza dei mujaeddin di Ahmad Massoud, il figlio del “leone del Panshir” ucciso nel 2001 e il diffondersi da Kabul ad Herat a Kandhahar, nonostante la violenta repressione, delle proteste delle donne che reclamano il diritto di lavorare e di muoversi liberamente.
