By Adriana Piancastelli
Lunga vita al rock. Alla musica che batte con il ritmo del cuore e scioglie cervello e ossa, che è sinfonia e urlo, magia e perdizione, vertigine e voglia di vivere.
Lunga vita al rock, duro, puro, metal, prog, heavy, contaminato, elettronico, essenziale – secondo i cinici e i negazionisti – l’eredità migliore dei sogni degli anni indimenticabili tra il ’60 ed il ’70.
Così in un torrido sabato sera a Roma, alla Cavea dell’Auditorium, con i Deep Purple è stato solo rock.
La band, nata ad Hertford, in Inghilterra, nel 1968, sciolta e risorta nei suoi eterni Mark e cifra romana (ieri Mark VIII) ha suonato dai pezzi classicissimi di Machine Head (1972, Highway Star, Lazy,Space Truckin’ e l’eterna, immensa Smoke on the Water) ai più recenti prodotti insieme ad Ezrin (No need to shout e Nothing at all) aggiungendo variazioni in blues, prog, classica e persino popolare (Arrivederci Roma) con stile, grinta, professionalità e divertimento.
In gran forma gli storici Ian – Paice alla batteria e Gillan, voce amatissima, l’iconico bassista Roger Glover, un organista portentoso – Don Airey – che unisce blues, rock, Hammond e synth variando il tocco delle dita da quando è scomparso Jon Lord ed un chitarrista potente e preciso – Simon Mc Bride – che sostituisce nel tour Steve Morris, rimasto accanto alla moglie Janine per aiutarla nella lotta ad un tumore cattivo.
Cavea piena fino all’inverosimile in una notte romana bollente e appiccicosa.
Ma appena partono le note di Highway Star ci sono solo armonie piene di ritmo, voci conosciute ancora libere ed elastiche, senza tempo (Ian Gillan, voce e armonica è del 1945), un basso totalizzante che diventa muro del suono insieme alla batteria – cuore del tempo di Paice.
E poi l’organo, le note liquide e intense che divennero, narra la leggenda Purple, il suono magico, prisma di tutte le armonie, quando Jon Lord collegò il “jack” dell’Hammond alle casse di amplificazione della chitarra di Ritchie Blackmore, chitarrista storico tra i fondatori della band, non più in formazione.
L’organo amatissimo da Jon Lord che creò opere straordinarie, anche se non del tutto condivise, come un concerto “classica e rock” – for Group and Orchestra – nel 1969 con il supporto della Royal Philarmonic Orchestra, diventa il suono dominante in un lungo Keyboard Solo in scaletta dopo aver liberato i toni del blues profondo in When a blind man cries.
Un concerto di tappe e suoni importanti, senza particolari giochi o effetti di luci, affidate al consueto purple di fondo, che diventa condivisione e coinvolgimento totale con Black Night e Smoke on the Water.
Tra i bis anche l’immortale Hush, scritta nel 1968, che per ritmo e sonorità, cancella più di mezzo secolo per qualche minuto.
Lunga vita al rock e ai suoi profeti e ai suoi sopravvissuti: Rolling Stones, Zeppelin, Black Sabbath, Deep Purple e pochi altri, tra le non numerosissime stelle dei nostri cieli così poco luminosi dei giorni contemporanei.