Un punto di fine. Matteo Messina Denaro ha scelto di spegnersi da mafioso irredimibile, senza lasciare alcun appiglio che consenta di venire a capo dei molti inconfessabili segreti di cosa nostra dei quali era addentro.
Irredimibilità ancestrale, riconducibile ad una mafiosità patriarcale che si tramandava da generazioni, ma con molte deroghe fuori contesto: le donne, il lusso, la sfida dell’inafferrabilità ed una certa pseudo cultura autodidatta, oscillante fra la saga del Padrino di Puzo e la retorica provinciale.
Un orizzonte dialettico criminale che gli consentiva un livello di interlocuzioni aggiornate, diverso dagli arcaici stereotipi allusivi e apodittici del padre, il capo dei capi delle cosche trapanesi Ciccio Messina Denaro, morto da latitante, e degli ultimi padrini di cosa nostra: Michele Greco, Totò Riina e Bernardo Provenzano.
La scomparsa di Matteo Messina Denaro chiude in ogni caso una pagina di storia criminale e rappresenta per molti versi l’inizio della fine di Cosa Nostra. Se non altro perché segna l’addio alla mafia degli anni ottanta, protagonista del grande balzo ai vertici internazionali del narcotraffico e del riciclaggio. La mafia delle stragi e della sfida ricattatoria e terroristica allo stato.
La classica mafia siciliana smascherata, processata e condannata nel primo storico maxiprocesso istruito da altri siciliani onesti e coraggiosi, come i giudici Falcone e Borsellino, Rocco Chinnici, Gaetano Costa, Ciaccio Montalto, investigatori come Boris Giuliano, Ninni Cassarà, Beppe Montana, Emanuele Basile, Mario D’Aleo, Vito Jevolella, Nino Agostino e tantissimi altri eroi quotidiani, coerenti con i propri doveri istituzionali. Doveri spesso invece dimenticati o, peggio, elusi da un contesto sociale intriso d’omertà e connivenza.
La cattura dopo un trentennio di latitanza dorata e l’addio a 61 anni del capomafia ultimo erede del più pericoloso e ramificato clan della provincia di Trapani, affetto da un tumore al colon, un nemico più implacabile e veloce della giustizia italiana, anticipa il destino che attende la maggior parte dei 237 boss detenuti al 41 bis, il carcere duro. L’inesorabile destino di morire in carcere. Come é toccato l’11 settembre al 79enne boss Benedetto Capizzi, deceduto nel carcere di Opera.
Un epilogo che a meno di clamorosi, e al momento improbabili, pentimenti riguarda in particolare i tredici principali padrini della mafia tutti pluri ergastolani.
Dal 92 enne Pippo Calò, all’82enne Leoluca Bagarella, e poi via via all’intero gotha delle cosche palermitane e catanesi: dai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, al clan di Nino, Salvino, Giuseppe e Aldo Madonia, da Vito Vitale da Partinico all’etneo Nitto Santapaola al nisseno Piddu Madonia, alla Lo Piccolo family, composta dal padre Salvatore e dai figli Calogero e Sandro.
Scandito da nuove condanne, confische di beni ed arresti di complici, il trend della old mafia che si spegne dietro le sbarre non ha alternative.
Resta da vedere come evolveranno gli equilibri criminali e i business dei traffici di droga, delle estorsioni e del gioco d’azzardo delle nuove inedite cosche della web generation di cosa nostra.
Una mutazione genetica destinata a cavalcare rete, narcotraffico e riciclaggio, ma anche a cancellare perché superate e perdenti le figure dei padrini delle vecchie generazioni. Considerate icone cinematografiche e di serial tv, sbiadite e ormai ridotte a stereotipi caricaturali che suscitano l’unanime sdegno e la condanna della società civile.
E’ la sorte scelta da Matteo Messina Denaro, spentosi da irriducibile e irredimibile ma che, come tutti gli altri capimafia del suo calibro, non riposerà in pace perché i loro nomi saranno sempre associati alle terribili stragi e all’agghiacciante serie di delitti compiuti.
“Ogni criminale é il boia di se stesso” diceva Lucio Anneo Seneca, spesso citato con narcisistica supponenza dall’ultimo boss della mafia degli anni ottanta. Senza capirne il senso e la profetica lezione.