Trent’ anni. Due stragi. Un unico abisso di ingiustizia senza verità. Col rischio dell’anniversariologia, la sindrome dei luoghi comuni e della retorica di quanti pur esaltando le figure di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sostanzialmente li usano per poi dimenticarli. Ricordi e memoria, sgomento e rimpianti non bastano se non si trasformano in storia e verità investigative le cronache dolorose e le ferite ancora aperte degli attentati di Capaci e via D’Amelio. Una storia che parta dalle loro vite, dall’esperienza professionale e dal contesto giudiziario, investigativo e politico in cui si trovarono ad operare.
Cosa resta oggi del loro impegno? Che memoria storica complessiva di quegli anni di piombo stiamo consegnando ai giovani mentre emergono sempre più interrogativi e nuove piste investigative sui retroscena e i mandanti occulti delle stragi del 23 maggio e del 19 luglio del 1992 ? Come “trasmettere” ai ventenni il patrimonio civile di Falcone e Borsellino ?
Uno dei modi migliori è certamente quello di sottolinearne l’esempio concreto. Di studiare e seguire il metodo Falcone e l’esempio di Borsellino, la sua profonda religiosità cristiana e l’altrettanto profonda ma laica religione del sacrificio e del dovere. Vite ed esperienze da imitare piuttosto che da ammirare retoricamente, raccogliendo e condividendo il loro sogno di un Paese normale in cui, come ripeteva Borsellino, potere “sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà” e con la consapevolezza evidenziata da Falcone che la “mafia come tutte le cose umane avrà una fine”. In realtà il metodo Falcone era Falcone stesso, la sua profonda cultura giuridica, il modo allora del tutto inedito e rivoluzionario di modernizzare e di rendere il ruolo del giudice istruttore coerente con i principi costituzionali. “Più si conoscono i dettagli della vita dei nostri martiri civili, più si capisce” – ha affermato il filosofo Augusto Cavadi – “che la loro morte è decifrabile solo come epilogo di un certo modo di esistere. E che non sono grandi perché sono stati uccisi, ma sono stati uccisi perché grandi.”
Sul piano investigativo, chi arriverà per primo sull’altra faccia della luna? La domanda, ammiccante e cifrata, negli ambienti giudiziari si riferisce agli ipotetici sviluppi delle inchieste sulle stragi di cosa nostra e sul ruolo chiave dei fratelli capimafia Filippo e Giuseppe Graviano e del superlatitante Matteo Messina Denaro: i padrini del vaso di pandora dei segreti inconfessabili di cosa nostra.
Sono quattro le procure distrettuali antimafia, Firenze, Palermo, Caltanissetta e Reggio Calabria, che sarebbero alla vigilia di una svolta per venire a capo su quello che si delinea sempre più come il culmine di un tentativo di colpo di stato mafioso.
Ma intanto, “il trend della mafia che muore in carcere si intensificherà” come ha sottolineato in una intervista rilasciata dopo la morte del capomafia Bernardo Provenzano l’allora procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, attualmente al vertice della Procura di Roma. Più delle ipotesi sono emblematiche le affermazioni di due magistrati in prima linea sul fonte delle inchieste sulle stragi del 1992.
“La ricerca della verità non è semplice – ha dichiarato la Procuratrice Generale di Palermo Lia Sava – perché ci sono ancora delle reticenze e il tempo che passa non aiuta nella rapidità dell’individuazione dei responsabili. Ma io sono cautamente ottimista. Quello che il tempo toglie, il tempo aggiunge e si riuscirà a comprendere la verità ” ha ribadito la Procuratrice Sava.
Uno squarcio di verità viene anche da quanto ha affermato il Pubblico Ministero Stefano Luciani nella requisitoria sul processo sul ‘depistaggio’ delle indagini sulla strage di via D’Amelio, che si celebra a Caltanissetta. “La strage di via D’Amelio avviene a 57 giorni di quella di Capaci ed in un momento storico che ha prodotto effetti devastanti per l’organizzazione mafiosa. Se é un dato oggettivo e inconfutabile che questi tempi non coincidono con i tempi dell’organizzazione mafiosa – ha sottolineato Luciani – é altrettanto oggettivo che coincidevano con altri interessi. Se si vuole avere una chiave per cercare di comprendere le motivazioni che sottostanno a questo depistaggio – ha detto ancora il magistrato -é utile partire dal confronto tra il prima e il dopo.”
Per il Pm di Caltanissetta “é impensabile che i Servizi di informazione, facendo il loro mestiere, cioè acquisire informazioni sul territorio, non avessero saputo o compreso o capito che Vincenzo Scarantino era un falso pentito di modestissimo spessore criminale. O eravamo – ha insistito il sostituto procuratore di Caltanissetta Luciani – nelle mani di persone che non sapevano fare il proprio mestiere, oppure, c’era dell’altro..”
Che ci fosse dell’altro lo fa quasi toccare con mano la clamorosa rivelazione inedita dell’ispettore della Dia, la Direzione investigativa antimafia, Pippo Giordano che ha individuato in contrada Rebuttone, ad Altofonte, il luogo dove cosa nostra qualche giorno prima del 23 maggio fece la “prova generale” della strage di Capaci facendo saltare per aria un tratto di strada sotto la quale era stato scavato un tunnel come quello dell’autostrada.
Il Procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli, con una lunga esperienza di inchieste antimafia in Sicilia, si dice convinto che “Nel biennio 1992/1994 è stato posto in essere un progetto terroristico-eversivo che ha inciso e condizionato la democrazia nel nostro paese”. Ancora più esplicito il magistrato della direzione nazionale antimafia e consigliere del Csm Nino Di Matteo: “La strage di Capaci -afferma – è la prima ed unica strage che viene attuata mediante un attentato ad un convoglio di macchine blindate in movimento. Un’operazione difficilissima da realizzare. E anche questo – aggiunge Di Matteo – fa pensare che gli uomini di Cosa Nostra siano stati in qualche modo coadiuvati anche in quella fase da esperti del settore”.
Per Di Matteo sulle stragi del 1992 si sono finora raggiunte solo “verità parziali”. Le finalità oltre al movente mafioso sono altre e ben più consistenti: “una preventiva, perché Falcone aveva di fatto assunto a Roma un ruolo politico importante e centrale alla lotta alla mafia. E poi una finalità terroristica – mafiosa. Faremmo un grave sbaglio – insiste l’esponente del Csm – a considerare la strage di Capaci come un delitto a sé stante”. Infatti, ha ricordato ancora Di Matteo, si tratta della “prima di sette stragi e il primo anello di una catena di delitti che hanno una matrice terroristica”, il cui scopo di fondo è stato quello di “rinegoziare da parte di Cosa Nostra i rapporti con lo Stato, i rapporti con le istituzioni, i rapporti con la politica. Questa è la finalità di fondo che caratterizza queste sette stragi” su cui non si è ancora fatta piena luce.
Una luce di verità e giustizia che, sosteneva Eraclito, non emergerà mai se “non si é disposti ad accettare anche ciò che non ci si aspettava di trovare.”