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Rubrica di critica recensioni anticipazioni
by Adriana Piancastelli
Negli ultimi giorni, negli ambienti del gossip di quello che è rimasto del rock, si parla molto (e molto a sproposito) di Pink Floyd; e non per celebrarne la musica o la genialità artistica espressa in un suono inimitabile e irripetibile.

L’oggetto della querelle è un twitter – che del cinguettio ha davvero scarsa vena poetica – pubblicato dalla seconda signora Gilmour, la scrittrice anglocinese Polly Samson.
Il twitter sostanzialmente è una sequenza di pensieri e definizioni piuttosto sgradevoli nei confronti di Roger Waters, 80 anni il prossimo 6 settembre, lo storico bassista tra i fondatori dei Pink Floyd, fin dai tempi degli Abdabs.

Waters non ha il dono dell’empatia e neppure quello della simpatia, ma dargli – tramite social – del megalomane misogino, invidioso, abusatore di playback, evasore fiscale tendente all’appropriazione di cose altrui, filoputiniano e profondamente antisemita dal profondo di un intimo marcio, è davvero almeno una caduta di stile. Soprattutto perchè Lady Samson, tra l’altro, non ha avuto la fortuna di conoscere e frequentare i VERI Pink Floyd, né di vivere le frequenti intemperanze giovanili dei fondatori della band e della leggendaria Summer of love (1967).

Wright, Mason, Barrett e lo stesso Waters, artisti e geni creativi di musiche indimenticabili hanno iniziato ad essere famosi mentre la Samson sgambettava se non nella culla, nel girello tra favole e draghi e sussulti sconosciuti della swinging London.
Ma a complicare certe atmosfere non propriamente Peace and Love si è aggiunto il compiacimento aperto e definitivo di Mister Samson, il mago della black Strat: David Gilmour infatti scrive parole pesanti come pietre commentando il post della moglie con un lapidario “…ogni singola parola è vera in modo dimostrabile”.
E che la pace sia con voi.
E’ vero che la band dei musicisti magici nata dalla fantasia di Syd Barrett non vanta un background di momenti rilassati e pacifici fin dai primi giorni del 1968 in cui Syd sempre più affondato nel magma della schizofrenia potenziata dagli acidi restava a casa sostituito proprio da un Gilmour compagno di esibizioni buskers in Francia, chitarrista bravo e affascinante come un modello.
Dal 1967 (The Piper at the Gates of Dawn) fino al 1979 (The Wall) sono stati 12 dischi di muri di musiche meravigliose e suoni incantati: dalle Suites di Atom Heart Mother a Echoes di Meedle, da Sheep o Pigs on the Wings di Animals, ad ogni singola nota di Dark Side of the Moon, fino a Shine on you e ai pezzi teneri e rabbiosi di The Wall.
The Final Cut, del 1983, era già pieno di freddezze, livori, ripicche e invidie culminate con il licenziamento di Richard Wright derubricato a turnista proprio da Waters che ha sempre considerato The Final Cut il tributo alla memoria del padre caduto vicino ad Anzio nel 1944, ingoiato in una guerra odiosa e odiata che diventerà la fonte del pacifismo rabbioso del bassista. Un tributo talmente personale che nel retro della copertina del disco è rimasta la frase “The Final Cut di Roger Waters eseguito dai Pink Floyd”.
Certamente il disco è traboccante di atmosfere livide e claustrofobiche con poco rock progressivo e nessun pezzo sognante con aperture mentali made by Pink Floyd.

Ma nel rock vige una legge non scritta: – Yoko Ono a parte – le mogli fanno le mogli, le groupies fanno le groupies e le figlie fanno le figlie della rock star, paradossalmente non ci sono altri spazi trasgressivi in un mondo che trasuda trasgressione.
I Pink Floyd sono nella storia del rock per la eccezionale creatività originale, per la potenza della musica, per il muro del suono dell’organo di Wright e per tutte le emozioni che hanno tessuto la colonna sonora della vita di milioni di persone.
Le polemiche, i pettegolezzi, le debolezze da stars, le ville alle Bahamas o nel Sussex non attengono alle note.
