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Rubrica di critica recensioni anticipazioni
by Augusto Cavadi
“Non è semplice avvicinarsi a Emmanuel Lévinas, poco conosciuto dai non addetti ai lavori, anche per la complessità di un pensiero di non facile penetrazione. Nel suo dire, infatti, vengono introdotti, oltre a termini poco usuali che rimandano alla sua formazione fenomenologica, anche concetti che possono apparire astratti a chi è poco avvezzo con la filosofia”: così Armando Girotti in una delle prime pagine del suo “Emmanuel Lévinas e una nuova idea di etica. Uscire dal conformismo etico, aprire un varco verso il «prima della Legge»” (Diogene Multimedia, Bologna 2020, pp. 150, euro 16).
Ma allora perché scrivere un libro su un pensiero “complesso se non anche a volte incomprensibile”? L’autore risponde: “Forse sarà una sfida che apro […] per rivalutare ciò che è comprensibile nel suo itinerario filosofico, affinché anche i non-addetti ai lavori lo possano apprezzare, seppur abbozzato. Occorre sfatare l’idea che i filosofi parlino per loro stessi all’interno di un circolo vizioso, la filosofia è nata nell’agorà, nelle strade, dove i pensatori greci iniziarono il cammino problematico della domanda filosofica” (p. 11).
L’impresa propostasi da Girotti può considerarsi sostanzialmente riuscita (pur con qualche reiterazione di concetti non necessaria e qualche pagina un po’ troppo arzigigolata) . Egli infatti ripercorre l’esistenza di questo pensatore ebreo lituano (1906 – 1995), costretto dalle persecuzioni nazifasciste a rifugiarsi in Francia, evidenziandone alcuni nuclei tematici più intriganti.
Un primo aspetto della proposta teoretica di Lévinas è – sulla linea di Kant – il capovolgimento della prospettiva dominante secondo cui la nostra morale dipende dalla nostra metafisica (da ciò che sappiamo sulle strutture fondamentali dell’essere) e che, dunque, prima bisognerebbe stabilire alcune verità (ad esempio l’esistenza di Dio o l’universalità delle leggi della Natura o l’autorità assoluta dello Stato) e poi dedurne i precetti da rispettare nel nostro comportamento quotidiano.
Lévinas constata che un accordo degli esseri umani su Dio o sulla Natura o sullo Stato o su un Testo sacro o su un Programma politico è impossibile: dunque si rischia costantemente la condizione tragica fotografata da Dostoevskij : “Se Dio non esiste, tutto è permesso”.
Ma la vita scorre, pressa, incalza: non possiamo aspettare l’improbabile congresso mondiale, in cui i rappresentanti di tutte le culture si mettano d’accordo su una cosmo-visione, per poter poi redigere un nuovo Decalogo.
Da qui la proposta di Lévinas: invece di procedere da un Dio sempre meno credibile (soprattutto dopo aver abbandonato il suo popolo nei campi di sterminio nazisti) alla condizione umana, rovesciare il percorso, partendo dall’uomo (e, se mai, poi ritrovare un’altra idea di Dio).
Ma chi è l’uomo? Egli, se fosse un individuo isolato e isolabile, non potrebbe rispondere: infatti può dire “io” solo quando incontra un “altro”. Sino a quando non incontra un “volto”, il soggetto non sa di essere un soggetto. Ma se lo incontra, lo incontra “senza maschera”, “nudo e limpido”, come “un soggetto che non ci fa guerra e che chiede rispetto”.
Anzi, essendo un volto costitutivamente “esposto” alla sofferenza, “indifeso”, ci chiama alla cura nei suoi confronti: alla “responsabilità”. Qui è il germe di ogni etica: “il volto ci dice: non uccidere; il profondo significato dell’incontro sta nella devozione per l’esistente” (p. 47). Davanti a un Autrui (“Altro”), la reazione che mi costituisce come persona umana – facendomi emergere dal piano dell’esistere comune al resto dell’universo – è: “Eccomi!”. Come scrive lo stesso Lévinas: “Dire: eccomi. Fare qualcosa per un Altro. Donare. Essere umano significa questo” (p. 55).
Attraverso la relazione solidale, compassionevole, con l’altro – soprattutto se sofferente (“liberare gli schiavi, vestire gli ignudi, nutrire gli affamati, far entrare in casa i senzatetto. E’ più difficile perché i senzatetto sporcano i tappeti”, p. 78) – potrò, infine, risalire a Dio? La risposta del pensatore lituano è profonda: in un certo senso sì, ma a patto che si intuisca che non c’è un dove ‘risalire’. L’esperienza del divino non è un traguardo che si raggiunga dopo essere partiti, come da un trampolino, dall’esperienza dell’alterità umana, ma consiste proprio in questa esperienza: “L’infinito” – scrive Lévinas – non è ‘davanti’ a me; sono io che la esprimo”. “La frase in cui Dio viene a mescolarsi con le parole non è «io credo in Dio»”, ma “l’eccomi detto al prossimo” (p. 54). Da ebreo (“non sono cristiano, lo sapete”) si dichiara ammirato soprattutto dal capitolo 25 del vangelo secondo Matteo, dove “Cristo dice: «Voi mi avete cacciato, mi avete perseguitato. Quando ti abbiamo perseguitato ? Quanto ti abbiamo cacciato? Quando avete cacciato il povero». Bisogna considerare ciò non in senso metaforico, ma in senso eucaristico. E’ veramente nel povero che c’è la presenza di Dio, nel senso concreto” (p. 78).
Insomma, secondo il pensatore ebreo, “dopo Auschwitz, Dio non ha più giustificazioni” (p. 77). Ma possiamo “vivere senza dogma”, non però “senza trascendenza” (p. 75).
Il punto è: non illudersi di raggiungere il Dio che non si vede restando indifferenti alla sorte del simile che si vede. Che ciò venga compreso nell’epoca della cecità autistica è improbabile: personaggi politici – che sbandierano i simboli della religione tribale in cui si riconoscono – neppure sospettano che le Scritture della loro stessa tradizione insegnano l’accoglienza incondizionata, unilaterale, dello straniero per il solo fatto che è straniero. E se per caso, o per miracolo, un Papa si permette di ricordare l’ovvio, viene impallinato come eretico dai burocrati del sacro.
Né si può sperare soccorso intellettuale e pedagogico da quei ‘laici’ che, del tutto simmetricamente rispetto ai bigotti, invece di soppesare criticamente i testi religiosi (prescindendo da eventuali pretese sovrannaturali), li sfogliano distrattamente “alzando le spalle, come dei testi ingenui, che sono stati veri un tempo, nell’ambito del folklore”. Ma, chiosa con un sorriso amaro Lévinas, “non sono folklore” (p. 75).