Terrorimo: penultima fermata Londra Un day after come tanti. Come troppi. I giorni successivi agli attentati, come quelli di Londra, Manchester, Stoccolma e di tutte le altre capitali europee colpita dagli attacchi del terrorismo islamico, sono caratterizzati dalle reazioni di autorità, esponenti politici e media.
Un coro di dolore e rabbia. Una sequenza di adesso basta, è ora di reagire! e di si poteva prevenire meglio e non si è fatto abbastanza! Pochissime e isolate le reazioni di condanna delle comunità islamiche. Dopo la strage sul London Bridge addirittura nulla, almeno secondo quanto si può rilevare sulle news inglesi.
L’ultimo appello a condannare il terrorismo e a dissociarsi dal fondamentalismo è l’accorato intervento col quale lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun nel luglio del 2016 si rivolgeva alla comunità islamica dopo il massacro di Nizza e l’omicidio di padre Jacques Hamel nella sua chiesa a Rouen, in Francia.
“Siamo tutti chiamati a reagire: la comunità musulmana, voi ed io, i nostri figli, i nostri vicini. Non basta insorgere verbalmente, indignarsi ancora una volta e ripetere che questo non è l’Islam. Non è più sufficiente ! “- diceva indignato Tahar Ben Jelloun – “Sempre più spesso non siamo creduti quando diciamo che l’Islam è una religione di pace e di tolleranza. Non abbiamo il diritto di lasciar fare questi criminali, se decidono che la loro vita non ha più importanza e la offrono a Daesh. Non solo: dobbiamo denunciare chi tra noi è tentato da questa criminale avventura. Non è delazione, ma al contrario un atto di coraggio, per garantire la sicurezza a tutti. Dobbiamo essere vigilanti a 360 gradi”.
Come per Manchester anche il day after di Londra ha comunque messo in moto una severa autoanalisi su quello che non ha funzionato nella prevenzione: ”certamente, anche alla luce del fatto che l’attentato di Manchester ha svelato ulteriori falle nelle intelligence del Regno Unito” evidenzia l’editorialista Michela Mercuri, docente di Storia Contemporanea dei Paesi mediterranei all’Università di Macerata.
- Come rispondere a questa minaccia?
Il terrorismo jihadista ha portato la guerra in occidente. Utilizzo il termine guerra non a caso. E’ una guerra asimmetrica, combattuta con armi non convenzionali e in modo non convenzionale, anche la paura, lo si diceva poco fa, è un’arma, forse una delle più temibili. A una guerra proteiforme si deve rispondere con un’azione su più livelli. E’ probabile che, nonostante non ci venga certo detto, le intelligence abbiano distrutto molte cellule e abbiano evitato attentati. C’è molta più attenzione nell’individuare reti jihadiste perché abbiamo imparato a monitorarne i movimenti anche sul web. Cosa più difficile, invece, è individuare i lupi solitari che si organizzano da soli, senza troppo preavviso. In questo caso sarebbe necessario collaborare di più con le comunità islamiche (che a loro volta dovrebbero collaborare di più con gli organismi di polizia) che sono “antenne” delle proprie realtà locali. Ci deve essere, però, un impegno serio e reciproco che vada al di là delle condanne formali. Solo così si spezzerà quella dialettica tanto cara agli jihadisti che lega l’islam al terrorismo e che è il terreno su cui crescono le “mele marce” che creano odio.
- Ruolo delle donne islamiche nelle comunità occidentali?
Le donne potrebbero avere un ruolo importante nel dialogo con l ‘Islam. Penso alla marcia delle donne musulmane dopo l’attentato di Westminster. In quella occasione c’erano anche donne non musulmane che marciavano con loro. Una immagine forte anche da un punto di vista simbolico. Possiamo iniziare da qui per un dialogo che sia davvero proficuo Potrebbe essere una leva anche per un maggiore inserimento, non parlerei di emancipazione, delle donne musulmane nel contesto di vita dei paesi occidentali per abbattere reciproche barriere.
- Nello specifico cosa non ha funzionato nell’attività di prevenzione?
Premesso che, come detto da più parti, è impossibile monitorare ogni luogo, va però sottolineato che gli apparati di sicurezza del Regno Unito hanno commesso diversi errori che potevano forse essere evitati. Hanno abbassato il livello di allerta dopo l’attentato di Manchester. Uno sbaglio madornale in periodo pre-elettorale ma soprattutto un errore tout court. Non abbiamo ancora capito che il livello di allerta è sempre massimo? Pochi giorni fa – proprio in occasione del terribile attentato all’Arena – veniva sottolineato come più di 400 foreign fighters fossero rientrati nel Regno Unito dai teatri operativi del Levante e molti erano in procinto di farlo. Inoltre, come era stato ribadito anche nella rivendicazione dell’attentato di Manchester da parte del califfato, si era ben coscienti che quel gesto terribile non sarebbe stato l’ultimo. Non era davvero il caso di abbassare il livello di guardia, anche se questo forse non avrebbe evitato l’ennesima strage.
- Errori della comunità internazionale?
In Siria e in Iraq lo Stato islamico è ancora vivo, seppur indebolito: anziché combatterlo si portano avanti guerre per procura sfruttando i pivot regionali, Arabia Saudita e Iran su tutti. Si è preferito utilizzare gli jihadisti per contrastare l’asse Mosca – Teheran piuttosto che combatterli. Il risultato ora lo vediamo a casa nostra.
- In concomitanza con i fatti di Londra si sono registrati gravissimi incidenti anche a Torino. L’Isis non c’entra, ma indirettamente questo stato di terrore quanto ha influito sull’accaduto?
Il terrorismo si chiama così proprio perché il suo obiettivo è seminare terrore, paura e incertezza che sono, poi, elementi altamente destabilizzanti per una società come quella occidentale. Da questo punto di vista, il panico che c’è stato a Torino – e che ha causato più di 1.400 feriti- in seguito a un falso allarme bomba, è stato una vittoria tanto gradita quanto inaspettata per gli jihadisti che si nutrono della paura dei crociati occidentali. E’ anche una guerra psicologica e da questo punto di vista, purtroppo, fin qui la stiamo perdendo. Continuiamo a ripeterci che dobbiamo vivere come se nulla fosse nel rispetto delle nostre conquiste liberali, un mantra che però si scontra con il fatto che, anche se continueremo ad andare allo stadio o ai concerti, la paura ce la porteremo dentro. Torino ce lo ha dimostrato e questa mattina ci siamo scoperti tutti molto più fragili di quanto ci sforziamo di far credere.