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Rubrica di critica recensioni anticipazioni
by Antonino Cangemi
In un momento in cui vengono alla ribalta le contraddizioni del sistema giudiziario e la fragilità istituzionale che dovrebbe garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, la beatificazione di Rosario Livatino riscatta il ruolo e l’identità dei magistrati.
Molte le pubblicazioni che hanno ricordato il giudice di Canicattì nell’anno della sua beatificazione. Tra di esse abbiamo scelto il saggio di Augusto Cavadi “Rosario Livatino – un laico a tutto tondo”, edito da Di Girolamo.
La scelta è ricaduta sul libro di Cavadi perché, pur soffermandosi sul profondo senso religioso che ha ispirato la vita e l’attività professionale di Livatino, ne coglie un aspetto in genere trascurato e spesso travisato: la laicità nel suo magistero di giudice.
E’ facile ritrarre Livatino come un cattolico fervente, tutto chiesa e toga, uomo di fede illuminato dalla fede nell’esercizio del suo mestiere di magistrato.
Il che peraltro ne giustifica ancor più la beatificazione e il sacrificio della sua esistenza dedita a Dio (nella sua agenda un’eloquente sigla: STD, sub tutela Dei) e alla giustizia. E in effetti Livatino così era, ma con una puntualizzazione doverosa che Cavadi nel suo breve saggio mette in rilievo e che meglio rende testimonianza dell’uomo e del giudice. Livatino non era un integralista, la sua fede e la sua alta levatura morale nonché la sua intelligenza, lungi dal collocarlo su un piedistallo alieno al confronto e alla “negoziabilità dei valori”, lo spingevano al contatto con gli altri, anche con chi gli era lontano per sensibilità, credo e filosofia di vita.
La laicità di Livatino si manifestava, secondo Cavadi, “nell’essere parte di ‘un popolo’” riconducendo l’espressione alle sue origini etimologiche (laos).
Il “giudice ragazzino” – come venne battezzato con un’assai infelice esternazione di Cossiga benché, quando fu ucciso, “ragazzino” non fosse – non apparteneva alla cosiddetta “casta” dei giudici (e in ogni caso di quella presunta “casta” rifiutava i privilegi e i poteri), ma al “popolo”, alla gente comune. E proprio per questo che oggi, proprio quando si svelano le debolezze e le lacerazioni del contesto giudiziario, spicca ancor più la sua esemplarità.
Nel saggio di Cavadi sono raccolte diverse testimonianze della sua “santità” laica, della sua anomala “normalità”: a parte una professionalità riscontrabile in pochi (le sue sentenze e i suoi atti giudiziari sono formalmente e sostanzialmente impeccabili), Livatino riconosceva l’importanza fondamentale della dialettica processuale e con gli avvocati coltivava il più costruttivo dialogo, teneva in grande considerazione le ragioni e i diritti degli imputati e avvertiva il peso – non indifferente per un giudice coscienzioso – del giudicare, la sua “terribilità” per dirla con Sciascia.
Il saggio di Cavadi si conclude con una significativa lettera scritta dall’allora giovane magistrato Felice Lima (pubblicata su un quotidiano siciliano) in occasione delle celebrazioni istituzionali del suo martirio: un j’ accuse contro le inadempienze dello Stato a difesa dei magistrati impegnati, nelle periferie della Penisola, a contrastare la mafia con uffici e dotazioni organiche inadeguati.