Se ne va un uomo di pace, ne rimane uno di guerra. Da Michail Gorbaciov a Vladimir Putin la maledizione di Mosca sembra riprecipitare all’alternativa fra stalinisti e neozaristi.
Quando arrivò al vertice della già profondamente in crisi superpotenza sovietica e si rese conto dei rischi quotidiani che scoppiasse accidentalmente una immane guerra nucleare, Gorbaciov non esitò un momento a telefonare al Presidente più anticomunista mai insediatosi alla Casa Bianca e disse semplicemente a Ronald Reagan: “smettiamola di giocare alla fine del mondo e diamoci la mano”. Reagan, che di attori e commedianti se ne intendeva, lo guardò negli occhi e capì che Gorvaciov era sincero e faceva sul serio.

Divennero amici come due adolescenti ed imposero ai loro generaloni, cultori del first strike e affetti dalla sindrome del dottor Stranamore, il primo trattato di controllo e disarmo atomico mai firmato da Stati Uniti e Unione Sovietica.
L’ex segretario generale del Pcus ed ultimo Presidente dell’Unione Sovietica, premio Nobel per la pace, regista di una impossibile perestroika, si rese conto dell’irriformabilità di un sistema oscillante fra dittatura e corruzione, ma fu talmente abile politicamente e popolare fra i russi da superare indenne il tentativo di rigurgito comunista col golpe dell’agosto del 1991 e con un coraggio storico di incommensurabile valore non esitò a dichiarare conclusa l’esperienza dell’Urss.

La speranza è che la scomparsa di Gorbaciov induca alla riflessione i russi sul destino del loro Paese, al quale dopo l’implosione del regime sovietico è mancato soprattutto il continuatore della perestroika e della glasnost, riforme e trasparenza. La straordinaria esperienza liberalizzatrice e pacificatrice di Gorbaciov, dal ritiro dall’Afghanistan alla caduta del muro di Berlino, non é assolutamente paragonabile al sanguinario, vendicativo e subdolo ventennio di Putin.
