by Augusto Cavadi
Quando pezzi di umanità si affacciano sul baratro di qualche disastro, ma anche quando altri pezzi privilegiati sperimentano la soddisfazione delle esigenze materiali fondamentali, emerge la domanda di spiritualità.
E’ una esigenza vaga, confusa, difficile da definire: è bisogno di capire se la vita – in noi e intorno a noi – ha un significato; è desiderio di sostare in silenzio, di esplorare la dimensione interiore e di contemplare le bellezze esteriori; è nostalgia di armonia perduta o forse soltanto sognata…
Di solito si identifica spiritualità con religiosità o addirittura con una determinata confessione di fede, ma è un errore. Già sociologicamente, infatti, la domanda di spiritualità è trasversale: l’avvertono giovani, adulti e anziani; credenti, atei e agnostici; ignoranti, istruiti e molto colti.
In molte civiltà troviamo soggetti e istituzioni che, intuendo la rilevanza e la diffusione di questa domanda di spiritualità, si attrezzano per rispondervi (più o meno disinteressatamente): guru, sciamani, sacerdoti, rabbini, preti, imam, congregazioni, chiese, movimenti…La globalizzazione ha reso per così dire sincroniche tutte queste offerte di spiritualità: offrendoci la possibilità di scegliere, ma anche gettandoci in un inedito imbarazzo.
Come orientarci ?
Nella mia ricerca personale sono arrivato alla conclusione (provvisoria, come ogni conclusione filosofica) che esiste una sorta di grammatica spirituale di base: se la si rispetta, si possono costruire edifici arditi e raffinati; ma, se la si ignora o la si trascura, le nostre proposte spirituali risultano infondate e alienanti.
Cosa intendere, dunque, per grammatica spirituale basica (o, se si preferisce, per spiritualità fondamentale, laica, elementare) ?
E’ una costellazione di atteggiamenti che si richiamano e si sostengono e si integrano a vicenda. Costellazione che – lungi dall’essere patrimonio esclusivo di questa o di quell’altra tradizione sapienziale – può rintracciarsi, in maniera più o meno palese, in tutti (o quasi tutti) i modelli di spiritualità conosciuti.
Tra questi atteggiamenti esistenziali, senza i quali si resta spiritualmente analfabeti e dunque esposti a derive di fanatismo, di bigottismo, di fondamentalismo la presenza a sé stessi come attenzione consapevole a ciò che si sta facendo, ma anche la presenza agli altri come apertura consapevole al volto che ci interpella.
L’accettazione della propria finitudine, dei propri difetti, dei propri errori, ma anche valorizzazione delle proprie doti; l’arte di saper tacere e di saper parlare, di saper mangiare e di saper digiunare, di saper godere e di saper rinunziare al godimento immediato; di saper invecchiare e di saper morire; di saper leggere davvero e saper praticare la scrittura come esercizio esistenziale; di amare i viaggi nello spazio e nel tempo; di saper amare e saper convivere con la solitudine; di saper imparare e di saper educare; di saper donare e di saper ricevere doni; di provare compassione attiva per tutti i viventi e di coltivare il senso della festa…
Nel riflettere su questi atteggiamenti – quasi tessere di un mosaico in divenire che possiamo denominare spiritualità basica – ci possiamo chiedere se essi trovino un suggello riepilogativo, che è anche una sorta di emblema o distintivo.
Probabilmente questa cifra sintetica ed espressiva della spiritualità laica è individuabile nel tratto abituale della gentilezza.
So bene che entriamo in una sfera comportamentale (l’area della cortesia, dell’affabilità, forse della nobiltà d’animo) solitamente trascurata perché ritenuta di secondaria importanza e comunque ormai anacronistica.
Ma ciò è vero solo se intendiamo la gentilezza come correttezza formale dei modi, come atteggiamento borghese che troppo spesso nasconde freddezza, senso di superiorità o ipocrisia servile.
In quanto discrezione, delicatezza di modi, stile di attenzione alle esigenze altrui (anche se inespresse), la cortesia è, secondo Edgar Morin, “la faccia individuale della civiltà che ne è la faccia sociale”. Egli infatti scrive in un paragrafo dedicato alla “cortesia” nel suo volume di Etica: “I saluti ‘buongiorno’, ‘buonasera’, le strette di mano, gli abbracci, i baci e anche le formule di cortesia hanno una virtù di civilizzazione giustamente detta civiltà (…). La cortesia è la faccia individuale della civiltà che ne è la faccia sociale. Così, cortesia e civiltà non possono essere considerate come dispositivi anodini, sono dei segni di riconoscimento dell’altro come persona. I guasti dell’inciviltà, propri dei grandi agglomerati (ignoranza dell’altro, non rispetto della sua priorità, assenza di assistenza allo sconosciuto in difficoltà), sono progressioni di barbarie interiore”.
Essere gentili significa saper sottrarsi quando c’è da fare spazio ad altri (specie se poco appariscenti, poco sicuri di sé, poco determinati), ma farsi avanti quando c’è bisogno di una presenza (e magari gli altri si smaterializzano): saper fare un passo indietro, ma senza scomparire del tutto.
La gentilezza, e le virtù sorelle, sono autentiche quando – prima di essere modi di rapportarsi agli altri – sono un modo di rapportarsi al mondo, all’essere nella sua dimensione profonda. Davanti alla natura e soprattutto alla storia abbiamo il diritto-dovere di intervenire attivamente, ma – oltre la superficie del reale – c’è un Logos, un Senso, che possiamo solo rispettare: entrandovi in sintonia, forse possiamo sperimentare una certa armonia.
A questo alludeva Panikkar quando scriveva: “la gentilezza, il buon umore, la dolcezza, la serenità e la pace non sono mere virtù morali; sono rivelazioni, epifanie, manifestazioni della struttura stessa della realtà.
La collera, la rabbia, l’ira – affermano molte tradizioni – non sono vizi perché fanno male al soggetto, ma perché spezzano i ritmi del reale, feriscono la realtà”.
Immagino le obiezioni che, più o meno oscuramente, si vanno configurando nella nostra mente: ma stiamo parlando di questo mondo – fatto anche di fanatici, di farabutti, di terroristi – o di un mondo onirico gestito da gentlemen inglesi del XIX secolo?
Vorrei limitarmi a tre esemplificazioni:
La prima abita l’immaginario collettivo di quanti eravamo giovani nel Sessantotto del XX secolo e seguivamo le lotte, vere e proprie guerriglie armate, di Che Guevara. Celebre la sua raccomandazione: “lottare senza perdere la tenerezza”.
Meno noti i casi di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino.
In una delle ultime interviste rilasciate, Falcone dichiarava di aver “imparato a riconoscere l’umanità anche nell’essere apparentemente peggiore; ad avere un rispetto reale, e non solo formale, per le altrui opinioni”. E la sorella Rita riferiva di Paolo Borsellino la raccomandazione che “prima di tutto, quando hai davanti una persona, devi vedere l’uomo, devi cercare l’uomo”, “prima di puntare il dito per giudicare devi esser disposto a porgere una mano per aiutarlo a rialzarsi”.
Insomma: la gentilezza, lungi dall’essere riservata alle damigelle dei collegi di suore, è il contrassegno più eloquente della vera saggezza e della vera forza.