Un giorno fatidico, il 15 settembre, per don Pino Puglisi: ne segna la nascita nel 1937 al quartiere Brancaccio di Palermo, e la morte nel 1993 – trent’anni fa – nello stesso quartiere per mano mafiosa.
La sera del 15 settembre 1993 don Pino era appena sceso dalla sua Fiat Uno e stava per raggiungere la sua abitazione in piazzale Anita Garibaldi quando si sentì chiamare da una voce sconosciuta, fece in tempo a girarsi e un killer lo freddò alle spalle con un colpo di pistola alla nuca.
Quel killer, stando alle sue stesse dichiarazioni da collaboratore di giustizia, era Salvatore Grigoli che raccontò d’averlo visto sorridere poco prima di morire e sussurrare “me lo aspettavo”.
La morte del sacerdote e le confessioni del killer hanno ispirato il testo teatrale in versi di Mario Luzi “Il fiore del dolore” in cui l’omicida si strazia nella sofferenza conquistato dal suo sorriso: “Eccolo, è qui, è venuto, / da dove siete entrato? / Non vi ho veduto entrare / eppure siete qui. / Siete voi, padre Giuseppe, / voi / col vostro ultimo sorriso”.
A trent’anni dalla sua morte e a poco più di dieci dalla beatificazione, Augusto Cavadi e Cosimo Scordato firmano l’interessante saggio “Padre Pino Puglisi. Un leone che ruggisce di disperazione” edito da Il pozzo di Giacobbe.
Da quel sorriso – il sorriso di un uomo mite che, nel nome dei valori evangelici, sfidò cosa nostra – prende spunto il libro di Cavadi e Scordato, filosofo e saggista il primo, da lunghi anni sacerdote di “frontiera” e teologo il secondo.
Ne prende spunto perché Cavadi e Scordato – che 3P, come Puglisi veniva chiamato, hanno conosciuto – nel loro saggio s’interrogano sulle ragioni di quell’omicidio e riflettono sul rapporto, non sempre limpido, tra la chiesa e la mafia con lo sguardo rivolto al passato, al presente e al futuro formulando indicazioni su percorsi da intraprendere e traguardi da raggiungere per la piena affermazione della legalità in tutte le sfere cattoliche, quale antidoto alla criminalità organizzata e alla sua subcultura, e lo fanno tenendo vivo il sorriso di chi predica un vangelo veicolo dei valori di pace, fratellanza, solidarietà, perdono tra gli uomini.
Valori inconciliabili con quelli di cosa nostra – la prevaricazione, l’obbedienza al più forte, il rispetto, l’onore – e che tuttavia non hanno impedito e non impediscono tuttora a molti dei suoi affiliati di considerarsi cattolici e alla chiesa di tollerare comportamenti mafiosi.
La lucida disamina di Cavadi e Scordato parte dall’assunto che tra la chiesa e cosa nostra, il “vangelo e la lupara” (per usare un’efficace espressione che dà il titolo a un altro libro del saggista palermitano) non può che esserci una radicale contrapposizione.
Il rapporto tra chiesa e cosa nostra – si legge nel saggio – ha conosciuto nel tempo varie fasi: “la compromissione diretta”, “la denunzia profetica”, “la presa di distanza”, e gli autori stigmatizzano, condannandola, l’indifferenza e la tacita, spesso inconsapevole (ma per ciò non meno grave) complicità di chi indossando le vesti sacre non si è opposto a Cosa nostra.
Cavadi e Scordato – che trattano il tema in capitoli distinti e con un bagaglio teorico ed esperienziale diverso – sono accomunati da una medesima visione: per loro, per quanto esemplare sia stato il martirio di 3P, la sua beatificazione non giustifica nella chiesa trionfalismi ma, al contrario, deve fare insorgere sensi di colpa: se tutti i preti e i loro superiori gerarchici fossero stati intransigenti nel contrastare cosa nostra e la sua subcultura, l’azione di don Puglisi a Brancaccio – quartiere della periferia palermitana controllato dalla mafia – non sarebbe apparsa isolata.
D’altra parte Scordato ha svolto un’azione parallela a quella di Puglisi: ha fondato il Centro Sociale San Francesco Saverio all’Albergheria – altro rione di Palermo “a rischio” – nel 1986 per sottrarre quel territorio all’ingerenza mafiosa, operazione che tentò di realizzare 3P cinque anni dopo col Centro di Accoglienza Padre Nostro, perdendo la vita.
Che fare dunque per liberare la Sicilia dalla mafia, o comunque tentarci seriamente e indebolirla in modo consistente sradicandola dalle istituzioni anche religiose dove ha trovato riparo?
Quale la lezione di Puglisi? Come raccogliere la sua eredità?
Occorre tuttora che la Chiesa, tutta la Chiesa, compia dei passi ulteriori rispetto a quelli già fatti – suggeriti dagli autori – e che sia sempre alternativa alla mafia. Alla fase della “presa di distanza” deve seguirne un’altra, più impegnativa: “La chiesa […] deve diventare spazio di risurrezione, ovvero di un cambiamento reale, che rende improbabile, se non addirittura impossibile […] l’infiltrazione dell’associazione mafiosa o l’invadenza degli atteggiamenti e dei comportamenti mafiosi”.